Da quando è iniziata la pandemia, ci troviamo di fronte a una svolta epocale che ha coinvolto tutti gli ambiti della nostra vita e della nostra quotidianità.
Nel mondo del Retail, i cambiamenti in atto hanno assegnato alla comunicazione visiva un ruolo ancora più determinante e strategico. È fondamentale che chi si occupa di progettazione di spazi Retail sappia decifrare, riproporre e anticipare le nuove tendenze in ambito Visual Food e No Food per andare incontro alle nuove esigenze dei consumatori e soddisfare le loro richieste in tema di sicurezza. Oggi più che mai, ad architetti e progettisti, così come ai professionisti e consulenti che lavorano al loro fianco, è richiesta una certa lungimiranza, nonché una notevole apertura nei confronti delle nuove tecnologie, vero baluardo dell’attuale rivoluzione dei consumi.
Assieme a una profonda conoscitrice della comunicazione visiva per il Retail esaminiamo le principali tendenze che si stanno affermando nei settori del Visual Food e No Food e che stanno modificando radicalmente le nostre abitudini d’acquisto.
Visual Food, No Food e nuove tendenze nel Merchandising
Prima di affrontare le nuove tendenze nel Visual Food e nel No Food, occorre fare una premessa sul significato di multicanalità e di omnicanalità.
La multicanalità è un concetto ormai sdoganato e obsoleto, che riguarda il comunicare attraverso diversi canali. Nel mondo Retail, questi strumenti sono, ad esempio, le locandine, gli store fisici, il sito internet, gli annunci radio o l’app dedicata. Ogni canale, però, funziona in modo indipendente e senza avere alcuna connessione con gli altri. Cosa che rende impensabile uno scambio di dati rilevanti al fine di personalizzare l’offerta per il consumatore.
Al contrario, si parla di omnicanalità e crosscanalità quando le informazioni sono coordinate e condivise tra i diversi mezzi a disposizione. L’esperienza del consumatore diventa così più fluida a prescindere dai punti di contatto che esistono tra consumatore e “negoziante”.
Questo incrocia drammaticamente l’attualità e le nuove consuetudini in termini di acquisto emerse a causa della pandemia. I consumatori, infatti, si stanno abituando a scegliere tra ciò che è subito disponibile in magazzino o che può essere consegnato velocemente. Di conseguenza, una presenza fisica “improvvisata” (nell’accezione positiva del termine) come quella di uno spazio pop-up, per le aziende può diventare un’opportunità. Un trampolino di lancio per perfezionare tutto, dalle offerte di prodotti ai protocolli in negozio.
Ross Bailey, CEO di Appear Here, la compagnia leader di mercato in Flexible Retail Space, sostiene che: “Durante questa pandemia, i retailer che hanno recuperato molte delle loro vendite grazie all’online hanno visto tali vendite provenire dalle aree intorno alle loro impronte fisiche”. Questo dimostrerebbe che la omnicanalità sta funzionando e che la sola presenza digitale non basta.
Parte da queste riflessioni l’intervista a Cristina Pisani, Visual Communication Consultant, che condivide con noi alcuni spunti emersi dalla sua lunga esperienza al fianco di brand e aziende importanti nel mondo del Retail.
Perché si parla di omnicanalità nel Visual Merchandising (che invece sembrerebbe un’attività legata al mondo fisico e offline dei negozi)?
Perché l’omnicanalità ha la sua centralità nel cliente e coinvolge i diversi touchpoint fisici e/o digitali per migliorare la sua esperienza con il brand.
Stiamo vivendo un momento molto particolare, in cui il comportamento di acquisto e di consumo è profondamente cambiato. Quello che tutti hanno compreso è che non si tornerà più indietro. Ne consegue che persino i consumatori più analogici si stanno, per forza, abituando a un nuovo modo di interagire con il digitale, fosse anche per ridurre il tempo a disposizione per gli acquisti.
Questo riguarda tutta la fase di ricerca sul web e di raccolta delle informazioni, anche solo quelle necessarie a cercare il negozio aperto o per ordinare la spesa. A questo cambiamento si legano fenomeni di crosscanalità come il click and collect: aziende come Kasanova e Unieuro danno la possibilità di acquistare i prodotti sul sito e andare a ritirarli presso il punto vendita fisico. Il Visual Merchandising è anche questo, ossia la capacità di mantenere la coerenza tra tutti i canali di comunicazione a disposizione. La famosa “esperienza di visita e di acquisto” del consumatore dev’essere connotata da una condizione di continuità al di là del canale che si decide di utilizzare.
Come trasmettere la qualità e/o il valore di un prodotto quando non è possibile vederlo/toccarlo dal vivo?
Attraverso la coerenza e l’integrazione tra canali.
Ad esempio, Motivi, brand del gruppo Miroglio, ha sfruttato il fenomeno degli Shoppable livestream che coinvolgono anche i social influencer. Per consumatrici sempre più votate all’iperconnessione, si passa dalla diretta streaming alla consegna del capo, dalle collezioni ad hoc per la vendita online alle promozioni su misura.
Le clienti di alcuni flagship Motivi hanno potuto fare shopping da remoto entrando in contatto con il personale presente nel punto vendita. Le store manager, con l’ausilio di una webcam, si sono trasformate in vere e proprie personal shopper: hanno selezionano i capi con la cliente, li hanno indossati per poi farglieli recapitare a casa per la prova e l’acquisto. Questo ha infranto la barriera fra fisico e digitale.
Un altro esempio è quello di Storefront, il principale player online nel mondo dell’affitto a breve termine di spazi commerciali per la vendita. Gli utenti del sito possono sperimentare la creazione virtuale di uno showroom da mostrare a 360 gradi ai loro clienti, direttamente a casa.
Quali nuove buone abitudini acquisite nell’ultimo anno i consumatori si porteranno nel nuovo decennio?
Difficile dirlo, forse tutte quelle che i negozianti gli concederanno. Se il cliente si abitua a un determinato servizio perché si trova bene e gli torna utile nel suo processo di acquisto, non sarà facile che se ne privi a emergenza finita.
Ho letto che, a marzo 2020, il Notting Hill Fish Shop, una pescheria aperta da poco nell’omonimo quartiere di Londra, si è dovuta riorganizzare completamente per far fronte alla crisi; mentre i ristoratori erano costretti a licenziare, i due proprietari, Fredrik Lindfors e Chris D’Sylva, hanno assunto alcuni Chef come “accompagnatori” per i clienti all’interno del negozio. Una sorta di personal shopper del food a cui i clienti difficilmente rinunceranno.
Nei grandi store si sente la necessità di avere dei “consulenti al cambiamento” che formino il personale e assistano i consumatori più evoluti all’interno del punto vendita?
Sì, certo. Mi viene in mente l’esempio di un’azienda che ha sviluppato un progetto di tecnologia VEA, ovvero Virtual Eyewear Assistent. Tramite un tablet si registra il viso del cliente in 3D, cosicché un software possa suggerire tutti i prodotti che meglio si adattano alla sua fisionomia. L’accesso a una sconfinata banca dati di occhiali garantisce un numero molto alto di possibilità tra cui scegliere, ma anche l’opportunità di cambiare dettagli e colori fino a quando non si trova il modello perfetto. Questo progetto è declinato in duecento punti vendita tradizionali che hanno affiancato questo servizio alla proposta tradizionale e a Torino è stato inaugurato il primo negozio reale con la sola tecnologia digitale. Non necessita di un magazzino, dato che gli occhiali vengono progettati e ordinati in tempo reale. Fatta la scelta, il prodotto viene realizzato e confezionato su misura e, dopo qualche giorno, il cliente passa in negozio a ritirarlo. Per fornire un servizio simile è indispensabile insegnare al personale il giusto approccio verso tecnologie ancora poco conosciute.
L’emergenza sanitaria ha accelerato il processo di cambiamento che era già in atto. Il ruolo del Visual Merchandising diventerà ancora più strategico. Nei casi in cui sarà possibile visitare i negozi cosa di cosa dovranno occuparsi il visual e/o il negoziante?
I negozi di prossimità, soprattutto Food ma anche non Food, sono quelli che hanno performato meglio, nonostante l’emergenza in corso, perché le gallerie commerciali erano chiuse. Questo ha accelerato una tendenza che li vedeva già in ripresa: il punto vendita di prossimità è diventato un valore per il consumatore. Se a ciò aggiungiamo che è cambiato il tempo che il cliente ha a disposizione, è mutato il suo atteggiamento perché si deve rispettare il distanziamento, entrano meno persone che però sono più motivate ad acquistare e chi è fuori, ad aspettare, trascorre più tempo davanti alle vetrine, ne consegue che non è pensabile che il negozio continui a comunicare come faceva prima. Cito il caso di un punto vendita indipendente (erboristeria), che ha utilizzato le vetrine come mezzo espressivo per comunicare con la propria clientela. L’obiettivo era rassicurare i clienti che stazionavano fuori, distanziati e in coda: “Da noi troverai ciò che ti è mancato: vicinanza, affetto, coccole, sorrisi, luce, calore, amore e tante idee regalo”. Un messaggio pensato per imbastire una relazione distintiva e personalizzata, fatta di emozioni (prima) e di idee regalo (poi). È stato molto apprezzato perché credo che il consumatore abbia ancora bisogno di rassicurazione e di emozioni piacevoli. Se non sappiamo anticipare o cogliere i nuovi bisogni, rischiamo di perdere delle opportunità preziose.
Sempre Ross Bailey, sostiene che i pop-up stanno diventando un appuntamento fisso nei quartieri più tranquilli e lontani dello shopping. L’attività visual può tenere conto anche dell’ubicazione dei punti vendita?
Assolutamente sì, è doveroso. Abbiamo ribadito che la prossimità è un valore, soprattutto per quelle realtà di piccole e medie dimensioni ubicate nei centri storici. Nelle aree urbane semicentrali o periferiche si deve lavorare in modo differente, fornendo ai clienti potenziali buoni motivi per raggiungerle: la sicurezza, ovviamente, ma anche e soprattutto nuove strategie comunicative. Bisogna saper comunicare innanzitutto la presenza, l’offerta di prodotti e servizi, il valore dell’esperienza di visita e acquisto utilizzando la tecnologia e il digitale. È necessario insistere sulla crosscanalità e sull’omnicanalità. Il customer journey deve avvenire in una condizione di fluidità, a prescindere dal canale. Ricordiamo però che tra tutti i touchpoint, il punto vendita fisico resterà sempre quello più attraente. Siamo consumatori digitali ma cerchiamo interazione nel fisico.
Nel settore No Food il Visual Merchandiser è una figura specializzata da molti anni. Nel Food, invece, non è così. Che tipo di formazione occorre dare alle risorse che se ne occuperanno?
Ci sono enormi margini di miglioramento per il Visual del Food nel Retail. Per esperienza personale, posso affermare che il ruolo del consulente in ambito Visual Merchandising è sempre legato a un’attività corale, svolta con tutto il team che è necessario costituire.
Si lavora a livello strategico con la proprietà e il management, per poi condividere le azioni da compiere su filiali/punti vendita con ispettori, tecnici, direttori e capi reparto (es. ortofrutta, pescheria, macelleria, ecc.). Gli addetti che fino a ieri si limitavano a sdoganare la merce o a riempire le casse, oggi sono chiamati ad avere più sensibilità e cultura visiva nei confronti del prodotto. Non è semplice né immediato, perché è questione di cultura; e la cultura, come la percezione, richiede impegno. Se però il management ha chiaro l’obiettivo, non è un problema formare gli operatori e ottenere risultati positivi su tutta la catena.
Cosa ha di particolare/diverso il Visual Food rispetto al Visual Merchandising di qualunque altro genere di prodotti?
In realtà tutto e niente! La frutta, la verdura, il pesce, la carne sono prodotti che hanno una fisicità peculiare, fatta di forme, colori, dimensioni e volumi esattamente come il tessile/abbigliamento o gli accessori. Cambiano la complessità dell’offerta (nel sistema Moda ogni capo è inserito all’interno di una Collezione stagionale che si rivolge a un particolare profilo di clientela), le aspettative nei confronti dello shopper e la comunicazione (online e offline).
Inoltre, l’intervento di creatività progettuale (soprattutto in vetrina) è molto più diffuso nel sistema Moda rispetto ad altri contesti (GDO) in cui è più difficile uscire da logiche di produttività/redditività dello spazio.
Entrambi i generi, Food e No Food, hanno le loro complessità; allestire una vetrina o vestire un manichino necessita di abilità specifiche simili a quelle richieste da chi deve gestire lo schema espositivo di un banco di frutta e verdura. Occorrono talento, senso estetico e attitudine. Metodo e processi sono piuttosto simili: analisi dell’assortimento in ottica category, analisi delle vendite (considerando margini e rotazioni), analisi dello spazio e delle attrezzature espositive (applicazione dei principi di comunicazione visiva), definizione delle linee guida e codifica dei criteri espositivi all’interno di Visual Book, con cui si formerà il personale.
Food Retail: quali sono gli accorgimenti più importanti nella progettazione di una nuova location?
Lo spazio deve essere gestito con metodo, nel rispetto dei valori e dei principi dell’identità del brand.
I valori possono essere quelli della qualità, della salute e del benessere, della convenienza, della fiducia, della centralità del cliente. L’importante è garantire la coerenza come valore imprescindibile, cosicché identità del brand e immagine percepita dal cliente possano coincidere. Spazio inteso come scelta dell’ubicazione, definizione del layout delle attrezzature e merceologico, dimensione dei corridoi, organizzazione dei flussi e dei percorsi di traffico, individuazione dei punti focali, programmazione e pianificazione delle vetrine (esterne e interne). Anche la scelta dei materiali utilizzati per l’arredo è importante, così come l’illuminazione che deve valorizzare il prodotto. Sappiamo che nel mondo della macelleria e della pescheria sono necessarie luci specifiche con caratteristiche diametralmente opposte, dovute alla colorazione dei prodotti da illuminare (colori caldi per le carni della macelleria, colori freddi per i pesci della pescheria).
Anche la temperatura ambientale è fondamentale per la tutela dei prodotti esposti sui banchi. È necessario immedesimarsi nel cliente finale, vestendo i suoi panni e osservando con i suoi occhi.
Come cambierà (se cambierà) la figura del Visual Merchandiser e quella di chi progetta spazi Retail?
Difficile dirlo, sicuramente chi progetta spazi Retail deve considerare alcuni parametri che prima dell’emergenza sanitaria non venivano considerati. Ad esempio, il distanziamento tra i consumatori e il personale di vendita, i percorsi obbligati, la scomparsa delle zone calde e fredde in senso assoluto a causa delle entrate contingentate, la presenza di plexiglass in avancassa.
Si continuerà a comunicare con gli occhi, sarà necessario rassicurare il cliente e utilizzare un linguaggio appropriato per trasmettere correttamente i benefici dei prodotti.
Abbiamo assistito alla rivincita delle superfici medio piccole e dei punti vendita di prossimità, oltre che a una maggiore integrazione tra canali fisici e digitali. Si pensi a servizi come click and collect o alle App che ci consentono di saltare la fila in farmacia, o alle consegne a domicilio della GDO e della ristorazione. Servirà prestare ancora più attenzione al cliente e ai suoi bisogni, primo fra tutti quello di sicurezza. Mai come in questo momento, le vetrine avranno un ruolo strategico per dare valore all’esperienza di visita e acquisto: dovranno comunicare a clienti distanziati, magari in fila, in attesa di entrare, fornendo un buon motivo per fermarsi (vendere idee, non soltanto prodotti). Questo vale anche per gli interni, che dovranno dialogare con i consumatori attraverso una segnaletica chiara ed efficace, promuovendo l’accessibilità visiva, fisica e intellettiva. Le opportunità non mancheranno, se si avrà la sensibilità di saperle cogliere.
Da dove traggono spunto e ispirazione un visual merchandiser e un progettista di spazi Retail?
Da tutto ciò che è visivo. Io sono stata fortunata perché ho frequentato l’Accademia di Brera a Milano negli anni ‘80 e ho avuto insegnanti preparati e severi, che hanno insistito molto sulla cultura visiva. Credo che studiare, leggere, seguire mostre ed esposizioni sia indispensabile.
Anche se oggi abbiamo meno opportunità, è importantissimo frequentare quei contesti in cui l’arte ha un respiro davvero internazionale. L’arte apre la mente e aiuta a uscire dagli stereotipi e dall’omologazione dilagante.
Penso, ad esempio, alla Biennale di Venezia, ad Artissima a Torino, ad Art Basel a Basilea, solo per citare alcuni eventi degni di nota.
Di recente, è scomparso Franco Maria Ricci, un editore illuminato e un grande collezionista. Aveva un senso estetico enorme, fuori dal comune. Ecco, credo che chi intende fare questo mestiere non possa non conoscere la sua storia o leggere i suoi libri.
Il retailer deve fare i conti con un cliente che ha sempre poco tempo a disposizione. La cultura visiva e l’arte possono aiutare a uscire dagli schemi e percorrere nuove strade. La comunicazione visiva è più diretta e sintetica di un messaggio scritto o raccontato?
Bisognerebbe lavorare con un approccio multidisciplinare, uscire dalla propria individualità per nutrirsi del piacere del confronto costruttivo. Mettersi in discussione osservando le cose da più angolazioni è quanto mai utile. Un architetto o un interior designer non possono non dialogare con un illuminotecnico, il quale non può non parlare con un visual, che a sua volta non può non parlare con chi sviluppa le collezioni o acquista prodotti. Di nuovo, ritorna la necessità di un approccio corale, al servizio del consumatore (consumaTtore).
Nel processo di acquisto il messaggio che può portare l’arte è comprensibile e fruibile da parte del cliente?
Dipende dalla sua cultura visiva. Non sempre il cliente ne ha la consapevolezza. Credo però che sia in grado di capire se una cosa è gradevole o meno. È come entrare in uno spazio o in una mostra: non è detto che si comprenda tutto ciò che si registra attraverso gli organi di senso, ma si avverte comunque un senso di benessere, una piacevole condizione di comfort.
Sappiamo molto bene che gli stimoli che riceviamo hanno una ricaduta sulle nostre emozioni, sul nostro sistema affettivo. Questo porta a dominare lo spazio in cui ci si trova, per esempio, e ad attivare la relazione cliente – prodotto – spazio. Ecco perché si esplora, si tocca la merce, si apre un libro, si indossa un capo, si annusa un profumo. Che questo straordinario processo generi una vendita nell’immediato, o meno, poco importa.
La presenza di una scultura di Vitturi nella vetrina di Aspesi fa riflettere su quanti allestimenti vetrina stupendi abbiamo visto negli anni e sul fatto che ci sono installazioni in ambito Retail che non possono essere definite opere d’arte nonostante la loro unicità, ricercatezza e significato. Quindi che differenza c’è tra installazione vetrina e opera d’arte?
La differenza è davvero minima, a volte inesistente. Il progetto vetrina di Aspesi nasce dalla consapevolezza del ruolo dell’opera d’arte (in questo caso, una scultura di Francesco Vitturi realizzata con “piumini” iconici Aspesi) e dall’importanza della contaminazione fra generi. L’estetica dell’opera è indiscutibile.
Può variare la capacità del singolo spettatore/fruitore/shopper di fare propri i linguaggi visivi comprendendone, a pieno, i significati profondi.
A questo proposito, il connubio tra arte e brand è bene espresso dal progetto sperimentale “10 artisti per 100 anni”, avviato da Giovanardi Spa. Una collaborazione che nasce dalla ricerca quotidiana compiuta dall’azienda di soluzioni tecnico-estetiche per i brand del lusso e che ha dato vita a un percorso artistico in cui non è l’arte a mettersi al servizio dell’azienda, ma il contrario. Gli artisti selezionati hanno rappresentato, con le loro opere, il rapporto tra Artista/Azienda e realtà produttiva, comunicando il saper fare, i materiali, le tecniche e gli strumenti che la Giovanardi Spa utilizza e sviluppa da 100 anni. La mostra ha messo in luce l’intento del brand di sfruttare l’arte per individuare nuovi linguaggi visivi e nuovi modi di fare cultura, oltre che l’occasione di compiere un importante investimento di ricerca e sviluppo volto a valorizzare il lavoro futuro.
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